Per quanto riguarda il concerto del primo maggio posso dire di aver visto – e, ahimè vissuto – solo il peggio.
Roberto ed Emmepì hanno avuto coraggio e costanza per assistere allo spettacolo per intero, mentre io me ne stavo solo nella mia solitaria solitudine ad ammirare la desolazione del cinema nelle prime giornate soleggiate. E’ come fare una passeggiata per Milano a ferragosto, le uniche persone che puoi incontrare sono addetti alla manutenzione strada oppure i ritardatari cui dopo una fuggevole occhiata li vedi sparire a bordo delle loro auto piene all’inverosimile e sfrecciare verso una località di villeggiatura a caso.
Quel giorno al cinema c’eravamo solo noi operatori.
Una giornata passata sottotono con la consapevolezza di dover fare ricorso a molte energie in vista del concerto.
<< Guarda che starà sul palco non più di quaranta minuti… >> mi dice Simone, scettico.
<< se vado di fretta non dovrei metterci molto. Tanto sono tutti a San Giovanni >>

Alle 22.15 vengo colto da quella sorta di sconforto fatto di voglia di una sana Ceres e un tavolo e quattro chiacchiere, insomma non ero più dell’idea impavida di immergermi in quasi un miilione di individui festanti.
Poco prima delle 22.30 mi arriva la telefonata di Roby << Nik, Vasco ha appena iniziato, dai vieni! >>
<< D’accordo, arrivo >> è proverbiale la mia capacità di dire “no” se l’argomentazione principale comporta feste o via dicendo.

Secondo previsione trovo la stazione tiburtina popolata da una manciata di carabinieri intenti a raccontarsela allegramente e poche vaghe facce smarrite.
La metropolitana anche peggio, ma meglio per me. La seconda volta in vita mia che a Roma ho un vagone tutto per me e peccato non avessi la macchina fotografica appresso.

Come ogni primo maggio la fermata di San Giovanni e quella subito prima vengono chiuse perchè evidentemente non idonee a sopportare un afflusso di gente così ingente.

La mia fermata è dunque “Re di Roma”, piazza tutto sommato vicina al concerto.

La stazione si presenta deserta, tutto secondo copione, penso.
Col cacchio.

Appena emerso dalle viscere metropolitane vedo un muro di persone dirette in senso opposto al mio.
Il primo pensiero è stato “ecco, è già finito”.
Il secondo pensiero non è descrivibile a parole, perché era un misto di smarrimento, panico, e istinto di sopravvivenza.
Dieci secondi netti ed ero al telefono implorando Roby di venire verso di me perché percorrere quella via controcorrente sarebbe stato un suicidio.
Pochi minuti dopo Roby mi richiama declinando l’offerta e confermandomi la loro posizione e permanenza sul posto.

Torno a casa.

Realizzare che quei mucchietti di carne attorno ai pali raffiguranti la grande “M” rossa della metropolitana non erano compagnie in attesa degli ultimi pezzi, ma la pozzanghera umana di un flusso infinito di uomini incanalati per scale e corridoi della stazione è stato il colpo di grazia finale.

Del primo maggio ho collaudato il gap di tempo di percorrenza tra la fermata Re di Roma dopo il concerto e prima.
Venti minuti ad arrivare, un ora e quarantadue minuti circa a tornare. Tra puzza di piedi di ascelle di marijuana di birra e vino.

Non ho mai amato così tanto il mio autobus come quella sera, al rientro.

Ho aspettato Roby ed Emmepì al baretto sotto casa, bevendo la mia tanto agognata Ceres e, una volta tornati, porgendone due ai ragazzi sfiniti dalla giornata al concerto.
Ci sarà il festival “dissonanze”, di certo meno economico di quello del primo maggio, ma dove saprò sentirmi più a mio agio.