Napoli, Santa Maria Capo a Vetere, Caserta, Pomezia, Roma, Perugia.
No, non sono parte di un elenco selettivo dei migliori comuni del centrosud, né il percorso di un qualsivoglia pellegrinaggio. Anche se nello svilupparsi c’è andato vicino.
E’ il tour che siamo riusciti a mettere in pratica “padre&figlio” nel giro di tre giorni. Per la serie: “come portare le giornate da ventiquattro a quarantotto ore in mille comodi chilometri”.
Verso la fine cominciavo ad avere degli scompensi mnemonici, più che altro dovuti al sovraccarico di eventi/luoghi/persone/sensazioni.

Come avevo scritto, mi sono trovato a casa alle 6.30 del giovedì mattina, per trovarmi in piedi – o qualcosa di simile – alle 10. Lo ammetto, la sveglia non mi ha pesato, ero ansioso di prendere quell’aereo e vedere come sarebbe andata a finire. O forse ero solo ansioso di non restarmene annichilito a letto, privando mio padre della preziosa compagnia.

Arrivo a Napoli (aeroporto Capodichino), in perfetto orario, e già la prima buona sensazione: il cappotto che mi ero messo a ragion del mercurio fisso a -3 dalle mie parti cominciava a darmi fastidio. Ed i guanti li ho – con somma soddisfazione – relegati nella tasca dello stesso. Un – decisamente – più rassicurante +13 ci attendeva a terra, accompagnato da un sole che vagamente ricordavo di aver visto una delle ultime settimane di ottobre ’05.

Non era la prima volta che sbarcavo a Napoli, e come città, a parte qualche piccola e trascurabile pecca, di per sé mi era davvero piaciuta. E tanto.
L’autista di quel veicolo ribattezzato “Alibus” che dovrebbe portarci alla stazione per la volta di SMCapo a Vetere prende ad attaccar bottone con me, piazzato proprio al suo fianco.
Da qui si notano le prime differenza tra gli autisti delle mie parti e quelli partenopei: spesso l’autista è accompagnato da un cartello con una dicitura simile a “NON PARLATE ALL’AUTISTA” e, qualora questa regola venisse infranta, ci si rimedierebbe un <<‘fanculo>>.
Là no. Dopo un primo e deciso confronto politico, in cui mi sono state svelate tutte le sfaccettature di scelta dell’intrepido autista, ho appreso l’impossibilità di andarmene dalla città prima di aver visitato la chiesa di S. Chiara, la Cappella di San Severo, San Gregorio Armeno e non-ricordo-nemmen-più cos’altro, passando per delle acute osservazioni sull’anarchia automobilistica che governa sulle strisce asfaltate, l’implicazione politica nel disastro economico italiano, la pizza ed il caffè. Ammetto di aver temuto nella “foto dei figli”, ma sospetto che se gli avessi proposto di farmi da cicerone appena avesse staccato dal lavoro, difficilmente avrebbe rifiutato.

In stazione constato un altro piccolo particolare: alcuni mezzi – di compagnie tutt’altro che nazionali – vengono sistemati su binari ben nascosti, non so se fatto apposta per mettere in difficoltà il viaggiatore o cos’altro. Nessun cartello a suggerire, ma un centro informazioni tutto sommato efficiente.
Le code non esistono. A Napoli mentre aspetti in coda devi stare attento perché qualcuno si sarà piazzato dietro un cespuglio, pronto a lanciarsi come una faina affamata, sulla cima della fila, soffiandoti il posto.
Per far fronte a questo problema è sufficiente un’espressione adatta ad un viso “poco-raccomandabile”, ma non tutti ne sono provvisti. Io, fortunatamente, sì.

SM Capo a Vetere è la prima grande sorpresa.
Qui l’aria non è più quel mix di smog e cibo che riempie le narici. Qui l’aria è ancora calda e secca. Non c’è troppo traffico, la via centrale ha un aspetto del tutto invidiabile e la gente che passa mi guarda come se avesse visto un alieno: diffidenza e curiosità.
Mio padre, nel frattempo, sembra un bambino nel paese dei balocchi: non pensava riuscissimo a raggiungere la prima meta con tanta facilità.

Appena messo piede nella via centrale incrociamo un’allegra processione composta dai tre re magi e bimbi in costume rievocativo.
Cominciamo bene.

Con l’imbrunire per la via il traffico va aumentando, ed ai lati della strada si formano dei gruppi musicali che cominciano ad allietare la serata con dei jazzsets, rock, musica rievocativa delle feste, insomma una manna per chi si sente veramente lontano da casa e non desidererebbe altro.

Prima dell’ora di cena abbiamo recuperato il veicolo che ci accompagnerà fino al ritorno. Dalle ali alle ruote: non c’è paragone.

Nemmeno il tempo di sederci nella pizzeria dove vorremmo dar sfogo al nostro appetito, quando il cameriere ci si avvicina e chiede << I signori da dove vengono? >>.
Va bene, il pizzetto lungo un po’ fa pensare, ma mio padre è mediamente brizzolato ed io sembro davvero suo figlio, e non ricordavo nemmeno di aver aperto bocca lì dentro: tant’è che ci siamo guardati in faccia pensando più o meno di essere finiti in una sezione esterna di un qualche istituto di parapsicologia disseminato nel deserto dell’Arizona, vicino ad Area 51.

Appreso la nostra provenienza, l’uomo mostra una certa – ed a mio avviso ingiustificata – ammirazione << Bella zona >> ci dice.
Allora: “bella zona”. A parte il clima filopolare che però è prerogativa del periodo, ma tant’è. Dalle mie parti non succede nulla. Siamo famosi per le tristi vicende della banda degli incappucciati, dello scandalo BPL/BPI, e per un’intervista ad un Trans fatta durante “Lucignolo” (così mi han detto).
E tranquillo, va bene per chi cerca una sorta di “pace dei sensi”, ma per chi non l’ha ancora trovata, questo luogo ha in tutto e per tutto l’aspetto di una trappola. E questa cosa ti porta a cercare disperatamente delle isole felici in essa, oppure di dartela a gambe, appena se ne ha la possibilità.

Nella notte la nostra vettura è già alla volta di Pomezia, abbiamo una puledra da andare a vedere.

Credo che ognuno di noi possa avere delle persone, anche lontane, pronte ad aiutarci qualora se ne manifestasse la necessità. Giunti a Pomezia, senza la minima idea su dove pernottare, mando un messaggio ad un’amica che ben presto, con lavorazione certosina, mi risponde dandomi una serie di hotel con tanto di indirizzo e numero di telefono, manco fosse delle pagine gialle!

Quella notte credo di aver dormito undici ore, o giù di lì. Avevo sì e no tre ore di sonno alle spalle, prima di raggiungere il sospirato giaciglio. Credo di aver guardato quel letto con la stessa espressione con cui ho guardato certe donne, ma in tutt’altre circostanze.

Il giorno dopo siamo a Roma, giusto per constatare una polmonite all’amico proprietario del ranch e vedere la nostra puledra.

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La partenza successiva ci pone davanti ad un grosso dubbio << …e adesso dove andiamo? >>
E’ presto detto: << Pà, mi mancano da vedere Bari e Perugia. Bari è lontana e preferirei d’estate, Perugia possiamo raggiungerla, giusto per farmi un’idea, poi ci tornerò >>. Detto, fatto.

Partiti con l’idea di trovare un’azienda agricola, agriturismo, che potesse venderci del vino locale, siamo finiti tra il niente ed il nulla, prima di deciderci a far rotta su Perugia una volta per tutte.

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Girare Perugia in macchina può rivelarsi più o meno come fare un giro sulle montagne russe di un parco divertimenti: strade che salgono, che scendono, gallerie che all’improvviso si sviluppano in tre imbocchi con tre direzioni differenti (il che ti porta a tagliare la strada al mondo se la “tua” direzione è esattamente nella corsia opposta), rotonde illuminate, sensi unici e miriadi di cartelli indicanti hotel, talvolta non del tutto precisi, anche se la colpa della perdita di tanto tempo per trovarne uno mi sento di darla alla nostra condizione: cominciava già ad imbrunire di nuovo.

Trovata una sistemazione, siamo pronti per andare nel centro storico, dove realizzo una città in pieno movimento, con una quantità incalcolabile di accenti nazionali ed altrettanti internazionali.
Dopo l’aperitivo a base di Montefalco (vino rosso umbro poco cordiale), siamo pronti per la cena.

Chiamo un amico nella speranza di trovare un suggerimento per la nottata, così, pochi minuti dopo, mi trovo in conferenza a tre via cellulare in cui una sua cara – e gentilissima – amica, mi suggerisce un pub proprio ad una manciata di passi da dove avrei pasteggiato.

Prima e durante la cena dentro di me comincia a disegnarsi il progetto per “far vuotare il sacco” a mio padre.
Non che avesse chissà quale segreto nascosto, o che in qualche modo io avessi ragione di pensarlo, ma eravamo in una città lontana da casa, solo noi due, e con una bottiglia di Montefalco a dare l’incipit alla serata filoalcolica.

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Ci serve una studentessa non italiana dai capelli rosso fuoco ed un sorriso da occhiali da sole.
Ho visto mio padre fare il cascamorto. E l’ho anche preso per il culo per questo, proprio mentre manteneva il riverbero del sorriso che le aveva appena fatto, accompagnando uno scambio di battute: << Che fai, ci provi? >>.
Il riverbero sparisce all’istante << Cosa dici? È gentile, io ricambio >> mi risponde, con un’imitazione di aureola; << Sè…sé >> gli rispondo, che nel nostro dialetto corrisponde ad un “sì, sì” poco convinto.

Non ricordo di aver parlato così tanto con mio padre. E ci voleva. Soprattutto dopo l’irish pub, in cui, solo una guinness, è bastata ad accompagnarci. Premetto, io sul montefalco avevo gettato la spugna da tempo, lui, ostinato, è voluto arrivare fino in fondo, per poi usare la scusa del “sento-lo-stomaco-non-a-posto” per evitare la birra.
Tant’è che quando gliene ho proposta della mia, dapprima ha rifiutato, poi, appena mi sono voltato per guardarmi bene attorno, ha dato fondo alla pinta: << Grazie papà >>. E quello mi risponde pure! Con un << Prego! Andiamo ora? >>.

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Ormai era tutto perfetto, temperatura fredda a parte – Perugia, sulla temperatura, aveva visto bene di andare sotto zero per la nostra presenza.

C’è stato un viaggio di andata, un viaggio di ritorno, fermate agli autogrill – con tanto di incrocio comitiva in abito medievale di ritorno da San Pietro (e devo ammettere che una bella ragazza in abito da cortigiana che fuma merit fa il suo effetto) – errori di rotta, battute, paesaggi, forse mi è sfuggito qualcosa, ma il viaggio non sarà l’unico.