Dove sono? Ovvero: appunti di un viaggiatore disorientato – Parte prima.

Attraversare un viaggio notturno per arrivare da qualcuno che va prendendosi sempre più spazio in te.
Provare in contemporanea fastidio per l’essere condizionato sempre di più “non-da-sé-stessi” ed allo stesso tempo covare ansia dal desiderio di vederla.
Rendersi conto di trovare i pertugi più impossibili pur di tenere un posto fisso nella mente da dedicare a quella persona.
Scorrere i cieli di mezzo stivale, nelle sfumature bluastre e nere delle notti annuvolate o serene, sfrecciando via su di un treno che senti palpitare e realizzi che sei tu a non stare più nella pelle.

La partenza è stata l’equivalenza di una fuga da una prigione per un ergastolano.

Divido lo scomparto con quattro curiosi individui: una giovane coppia hippy di rientro dalle vacanze in Cile – lui italiano lei spagnola – un ragazzo curatissimo cui avrei potuto nutrire anche una certa simpatia, non ci fosse stato quel for man magazine al seguito che mi ha spento ogni sogno di gloria e, infine, un signore indiano decisamente sovrappeso.

Fino a Bologna la ragazza spagnola dorme, o almeno ci prova.
Tra i finestrini del treno aperti ed il vociare nel corridoio di due donne – una di colore e l’altra italiana – il raggiungimento del suo scopo sarebbe stato un gesto da stremati più che da assonnati.

La ragazza di colore racconta alla donna le disgrazie del suo paese (non ho capito quale fosse), la traballante situazione politica, il costo della vita ridotto davvero ai minimi termini, mentre l’altra le racconta di quanto sia affascinante ed imprevedibile il Giappone.
Mi sono posto parecchie domande a riguardo. La mia stima verso l’africana sorridente – e dalla stazza tutt’altro che minuta e gracile – andava aumentando per quanto cercasse di sostenere una conversazione con una signora di mezza età capace solo a darsi arie dei suoi continui viaggi.
Il quadretto era divertente: le ringo girls intente a parlare dell’estremo oriente, materiale a sufficienza per Oliviero Toscani e Benetton.

Nel frattempo io cercavo di tenere a bada la mia infantile irrequietezza cercando di porre tutto quanto mi ribolliva dentro sulla carta del mio diario di viaggi.

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Torniamo al viaggio.
A Bologna la coppia di hippy scende ed in un microsecondo i tre rimasti: io, l’indianone e il ”for-man-magazine”, con uno sguardo d’intesa, manco avessimo fatto le medie assieme, sdraiamo tutti i sedili ricavandone tre comodi giacigli, tiriamo le tende e spegniamo la luce.
Finalmente la pace.

Qualcosa doveva andare storto per davvero a questo punto, sembrava tutto troppo bello: un viaggio verso una meta tanto desiderata da farmi perdere quel poco di equilibrio che mi rimane, con una temperatura di cabina invidiabile, e l’aria leggermente aspersa dalla fragranza del Sì Kèi Uàn del rampollo, libero dalle scarpe, con la possibilità di dormire e non sentire il peso della notte sulle mie spalle una volta arrivato e dedicarmi solamente a lei, quando, all’improvviso (Susanna Tamaro docet) mi giunge all’orecchio un suono tanto violento quanto sinistro.
Simile all’ingranaggio della marcia di un tir polacco, ma ripetuto più e più volte.
Poi il suono muta, si sente un sibilìo di sottofondo, mentre in primo piano qualcosa di simile a quei petardi messi a spina di pesce con la lunga miccia in comune, che prima fanno scintille colorate e poi scoppiano a raffica.

Contemporaneamente io ed il ragazzo da confezione di intimo maschile balziamo su di un fianco e ci guardiamo in faccia.

Premetto: io russo. E se bevo russo anche forte.

Ma così NO.

Pur aprendo un po’ la finestra per cercare distrazione nel “rilassante” suono delle ruote metalliche sui binari ferrosi, del vento e dei dislivelli, non c’era nulla da fare.
Sovrastante tutto, quel rantolio potente quanto il motore di un chopper.

Ha russato in tutti gli otto modi possibili: ad intermittenza, in inspirazione, in espirazione, con fischio, con fischio trillato, con l’ugola tremula, con il doppio mento vibrante e con il blocco a metà respiro che, talvolta, lo costringeva ad aprire bocca ed occhi.

Credo che anche il ragazzo che sussurrava alle sciampiste si sia lasciato andare in una serie di rosari detti fra sé e sé.

Credo che fosse talmente forte il sentore positivo che mi sentivo addosso, da aver dato modo alla Divina Provvidenza di allungare una mano e porre l’omone su di un fianco, riducento drasticamente l’inquinamento acustico dell’area.

Trenta secondi dopo perdevo i sensi, riprendendoli venti minuti prima di arrivare a destinazione, mi sistemo alla meglio e, come da copione, alle quattro e cinquantatre minuti scendo dal treno.

Ho visto parecchie stazioni in vita mia, un po’ a tutti gli orari: orario pendolari, orario studenti, orario viaggiatori sporadici ed orario disgraziati.
Roma Tiburtina è peggio anche di Brescia.
Quello con la faccia più bella mi ricordava Charles Manson con quel pizzico di balcanico sufficiente a farmi diventare misantropo a forza.

Un uomo sulla quarantina mi vede e legge nella mia mente
<< Taxi? >> mi chiede.
Gli faccio un cenno d’assenso con il capo, e mentre mi chiede quattro volte il nome della via in cui devo andare – non la conosceva – mi indirizza da un suo collega addormentato sul volante della vettura e sparisce senza che possa baciargli la mano in segno di riconoscenza.

Nemmeno il suo collega sapeva dove fosse la via dove dovevo arrivare, ma conosceva la strada per giungere ad una piazza lì vicino, così decidiamo di partire.

Avevo solo una cosa per la testa, ed erano i miei occhi a chiedere un viso e le mie braccia un corpo da stringere.

Dopo i primi, lunghissimi, sessanta secondi di silenzio e dal quinto grasso sbadiglio del tassista, colto dal terrore che potesse tornare a dormire sul volante – cosa poco raccomandabile se sotto il principio automobilistico-deambulatorio – pongo la domanda a risposta più sicura per oltre l’ottanta percento degli uomini italiani
<< Le piace il calcio? >>
<< Sì… >> mi risponde con un eccesso di sufficienza, come fosse la domanda più stupida del mondo (e forse aveva ragione).
Ancora non potevo immaginare l’effetto sortito dalla domanda che stavo per porgli
<< Cosa mi dice di quello che sta accadendo? >>
Nemmeno gli avessi offerto una montagna di cocaina su di un vassoio d’argento, quello spalanca gli occhi, gonfia la giugulare, si sveglia come se fosse stato destato da degli spari durante il conflitto in Vietnam e apre il sipario con un “ E’ uno schifo!”.
Il monologo l’ho seguito a metà, sono juventino – nessuno è perfetto – e ho sentito certe frasi che qui, per il timor del Signore e rispetto delle nostre anime, è meglio tacere.

Una cosa l’ho capita. Lui di certo non era juventino.

Mi getto fuori dall’abitacolo con tutta la paura di chi teme di esser scoperto e cerco di orientarmi come posso dalla Piazza dove mi trovo.

E’ stato un effetto sorprendente rendermi conto di ricordare esattamente tutto quel luogo, riconoscevo anche il passaggio sterrato tra le abitazioni colorate adiacenti, fino a giungere dove volevo.

Sono come lingue invisibili che partono dalle tempie, sfiorandoti dietro le orecchie, passando per la giugulare, accarezzandoti le spalle, svanendo in petto per risorgere come fenici dallo stomaco e prenderti tutto. Nell’apice di tutto questo c’è un senso di vertigine lungo una frazione di secondo, ma capace di farti piegare le ginocchia.
E’ quello che mi è capitato vedendo quella porta aprirsi. Vedendo lei.

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