Con una resa incredibilmente longeva – per quanto mi riguarda – qualche giorno fa ho concluso una delle esperienze più illuminanti della mia ancora (grazie al Cielo) breve esistenza.
Era il diciassette maggio 2004 quando entravo a piè pari in quello che doveva essere un “anno sabbatico”, rivelatosi poi un periodo ben più gonfio, per motivi che a tutt’ora – sono mediamente (in questo momento) “a-caldo” – non saprei spiegare.

Cominciai a capire che quel lavoro mi avrebbe insegnato qualcosa quando, a seguito di una piccola ustione alla mano, andai dal mio diretto superiore a lamentarmi del danno.
“Guarda, mi sono scottato la mano!” gli dissi.
“E té ‘ndu séret?” (e tu dov’eri?) mi rispose.

La mia storia si svolge all’interno di una contraddittoria (per svariati motivi) grossa industria chimica del nord Italia. Nomi e riferimenti reali li ometto, ho già troppe beghe legali da risolvere senza bisogno di aggiungerne altre, ma tutto quanto scritto qui, vi posso assicurare, corrisponde al vero.

Dovete sapere che buona parte di quella chiamata comunemente “plastica”, con molta probabilità non è altro che poliuretano. Questo materiale ne ha fatta di strada da quel 1937 in cui Otto Bayer riuscì a sintetizzarlo mescolando isocianati e alcol, ottenendo così un prodotto definito “macromolecolare di nuovo genere” per la prima volta. Il punto di forza di questo materiale (il poliuretano) resta la versatilità con cui può essere modificato e quindi utilizzato.
Dovete sapere – poi – dell’esistenza di diverse produzioni dello stesso, e per le più disparate applicazioni: per esempio, di un tipo viene usato per la produzione di pelle finta, altro per farci scarponi da sci ed altri ancora per farci suole per le scarpe e via così, finanche ad arrivare a parti sostituenti il metallo.

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I luoghi in cui ci si dedica a questo tipo di produzioni non sono propriamente definibili “gai” e “fausti”, tutt’altro.
Immaginate un’azienda grande come un villaggio, suddivisa in quartieri capaci di generare un reticolo di vie parallele e perpendicolari tra di loro, un po’ come le strade nelle città americane.
Immaginate tra queste vie dei veri e propri hangar costituiti da grosse pareti in prefabbricato bianco e tetti invisibili: delle grosse scatole appoggiate su di un vasto terreno in cementato.
Immaginate queste pareti ingrigire col tempo fino ad intensificare questo imbrunimento nella zona alta della parete, a ridosso del tetto: delle striature nerastre simili a quelle che si formano negli angoli delle stanze troppo umide.

All’interno del mio “hangar” si produce poliuretano termoplastico estruso in granuli e l’interno del reparto non differisce di molto dal paesaggio esterno, non fosse per le attrezzature complicate installate parallelamente l’una all’altra pronte a vomitare fuori il prodotto terminato per tutta la durata della settimana lavorativa, fino al sabato mattina.
Anche dentro è il grigio a governare, perfino il giallo delle paratie situate qua e là sulle pedane sospese riesce a risultare mortificato dall’ambiente cupo.
Le pedane di cui sopra costituiscono i “piani alti” del reparto, grosse piattaforme avvolgenti le caldaie, situate davanti ai silos di raccolta prodotto, oppure situate in punti utili per il raggiungimento di determinati impianti abbinati agli estrusori stessi.
Le grosse caldaie utilizzate per il mescolamento e il deposito delle materie prime pronte ad essere mescolate, scaldate, reagite e impastate danno alla parte alta del reparto – sulle pedane di cui sopra – un aspetto(1) alieno ed al contempo vecchio.

Tra tutti gli esseri viventi, l’uomo ha dimostrato più adattabilità all’ambiente. Con il fatto di avere un cervello per ragionare – cosa ahimé non fornita a tutti [sich] – in qualche modo siamo riusciti ad arrivare fino in Patagonia e siamo già da tempo situati in Siberia e Groenlandia, nonostante il freddo proibitivo.
Siamo riusciti ad adattarci ai climi caldissimi dell’equatore e addirittura ad attraversare gli 8.000.000 Kmq del deserto del Sahara.
Negli USA addirittura ci hanno fatto un parco giochi nel deserto del Mojave(2) – ‘sti americani.

Dunque, quell’ambiente grigio e privo di stimoli all’adattabilità dell’uomo, privo di colore, in realtà è un luogo sprizzante sfumature imprevedibili ed a tratti sorprendente nella giocosità dei frequentanti.
Già, perché dove il colore è sottratto dal paesaggio, ci hanno pensato le persone a portarlo.

Premetto, non tutti i lavoratori di quel luogo sono persone capaci di tale piccolo miracolo, anzi, spesso mi sono trovato ad incappare con rassegnazione, totale assenza di stimoli ed una voglia di “essere” rasentante quella di un suicida, ma – grazie a Dio – in quanto a lumi di follia, credo di essere capitato in uno dei reparti meglio-messi di tutta l’azienda.

Il lavoro principalmente consiste in mansioni di controllo sull’impianto: che produca materiale in specifica(3) e non mi salti per aria attentando all’incolumità di qualcuno. Poi c’è tutto il contorno fatto di essiccatori, mescolatori, pescanti, materie prime da sistemare, sturalavandini e varie ed eventuali. Insomma, volendo ce ne é per non stare mai fermi.

Quello che rende i lavoratori più spassosi è strettamente vincolato dall’esperienza maturata nella sua mansione: chi-ci-sa-fare (=c-c-s-f) si permette anche una maggior leggerezza nel lavoro da svolgere, altri un po’ meno(4).
Tutti (tranne ovviamente c-c-s-f) concorrono al raggiungimento dell’obiettivo – definito da un mio stesso collega – di salvare la pelle(5).
Quello che mi ha sorpreso e dapprima, devo ammetterlo, un po’ sconcertato, è stata l’assenza quasi totale della proverbiale solidarietà tra operai.
Baluardo e bandiera dei “partiti sinistri”, visione idealizzata – molto, moltissimo – da chi della vita in fabbrica probabilmente ha solo visto le assemblee sindacali.
Il fatto è che troppo spesso la pigrizia prende il sopravvento su tutto. Pigrizia giustificabile quando il lavoro lo permette, un po’ meno quando va a scapito di qualcuno(6).
Il lavoro sui turni mi ha dato modo di poter vedere – esserne testimone e parte stessa – di quanto sia minimo il rispetto verso i turnisti successivi. Lavori lasciati indietro, sotterfugi e magheggi infidi alfine di evitare un lavoro sgradito o evitabile(7) con la consapevolezza che comunque ci avrebbe pensato quello dopo. Abbandono a sé stessi e strafottenza.

L’effetto di coloro i quali riescono a sviluppare gli anticorpi a tutto questo, altro non è che l’emancipazione lavorativa verso il proprio impianto e le mansioni extra affioranti durante l’anno lavorativo.
L’adeguarsi a tutto questo rende anche le persone mediamente più pigre e svogliate, oppure incattivisce e genera malcontento.
Basti pensare che a fronte di determinate mansioni, operai assunti ormai da diverso tempo non conoscono l’utilizzo di certi impianti o lo svolgimento di alcuni lavori. Per “diverso tempo”, intendo dai cinque anni in su.

Anche i giochi di potere(interessi) palesati dai rappresentanti sindacali meriterebbero un capitolo a parte, posso provare solo a sintetizzarlo, sicuro comunque di non delinearne i nessi con sufficiente chiarezza.
In un’azienda dall’importanza e dalle discrete dimensioni come quella in cui mi trovavo, i rappresentanti sindacali altro non sono che la voce-degli-operai-verso-la-direzione e viceversa. Messaggeri ed al contempo (dovrebbero essere) spalleggiatori di tutti quelli in tuta blu, in realtà sono spesso uno strumento mascherato per penetrazioni anali ad alto utilizzo di vaselina da parte della direzione stessa, al fine di far passare le proprie proposte ed allo stesso tempo venirne fuori (la direzione) lucida lucida.
Ho assistito solo ad una assemblea sindacale in tutto questo tempo, e mi è bastata.
Mi è bastata perché considero tempo perso quei quasi sessanta minuti di nozioni a caso buttati su di un tavolo.
Laddove dovrebbe vigere la chiarezza e la semplicità più pura (del resto l’operaio è semplice e con questo non intendo sminuirlo, tutt’altro) in realtà si genera confusione, si parla di tutto per non parlare (seriamente) di niente. Mi sono chiesto – in un momento ben preciso di tutta la riunione – se fossi coglione io, oppure se davvero quel lavoro stesse cominciando a bruciarmi i neuroni, poi ho guardato i volti incazzati di tutti i miei colleghi, realizzando il comune pensiero del “non-aver-capito”.
I sindacalisti non sono strumenti dei padroni, come alcuni sindacati estremisti cercano di darci a bere. Semplicemente quando la direzione parla troppo complicato cercano di far finta di aver capito. Spesso ripetono a pappagallo e magari ci cacciano dentro qualche considerazione: è lì che si genera il casino. Che cazzo di considerazioni vuoi dare se non sai nemmeno quello che stai dicendo?
Nelle ultime elezioni sindacali all’interno di quell’azienda sono stati di più i voti presi dai sindacati di base (quelli estremisti, per intenderci), forse perché i “semplici” si sono semplicemente rotti le palle di essere presi in giro. Del resto, certi rappresentanti sono lì grazie ad una cosa definita “quota protetta”, cui non voglio star qui a spiegare, ma che se non ho capito male ricorda un po’ il metodo usato in forme di governo come la dittatura e la monarchia.

Un altro aspetto esilarante è stato senz’altro il vedere la schiettezza con cui certa gente si convince di compiere azioni “furbe”, senza rendersi conto di essere invece tutt’altro che sottili nelle loro intenzioni (ed avvalendosi poi di pretese a ragioni del tutto inventate(8)).
Generalmente la mossa del “gettare-il-sasso-e-poi-nascondere-la-man
o” è tipica del furbo della situazione. Laddove manca la finezza insita nell’arte di farla franca, si generano dei siparietti degni di lode.

Ci sono però anche esempi di merito del tutto inaspettati in un ambiente del genere.
Colleghi scherzosi e solidali, indaffarati e sempre disposti a spiegarti cosa fare.
Responsabili attenti e pronti a risolvere problemi al di fuori della tua portata. Persone pronte a contare su di te, e su cui anche tu puoi contare.

Davvero, poche, ma ci sono. Ed è a queste persone che io voglio dedicare il mio grazie infinite per i giorni passati con loro.
Quelle stesse persone che mi hanno insegnato l’umiltà, l’attenzione a sé stessi ed a contare, prima di tutto, su sé stessi.
Quelle persone mi hanno insegnato quello che non troverò scritto mai in nessun libro, e nessun professore potrà mai insegnarmelo, a meno che non sia passato anche lui là dove, in fondo, credo di aver appreso una delle più profonde e difficili lezioni di vita.

NOTE:

(1)Per merito anche dei tubi in acciaio spesso avvolti in lana di vetro e materiali coibentanti che attraversano le linee aeree del reparto stesso. E’ incredibile quanto poco sia nell’inventiva delle ambientazioni futuristiche, in quel posto ci sono abbastanza paesaggi da costituire il luogo ideale per la prossima avventura dei vecchi film “Mad Max”.

(2)Las Vegas (ndN)

(3)Per le varie tipologie di prodotto esistono delle analisi semplici in cui si determina la quantità di isocianato residuo (non reagito) con l’utilizzo di uno spettrometro e la viscosità del materiale stesso (morbidezza, in poche parole, la forza con cui può essere modellato – a pressione o quant’altro – ad una determinata temperatura).

(4)C’è chi – a fronte di una piccola avaria o ad un blocco della produzione per un calo repentino della coppia torcente [rif. a] – acquisisce l’espressione di un uomo sorpreso da qualcosa inaspettatamente andata a fuoco e con cui non sa bene cosa fare.

a)La coppia torcente è il valore – presumo espresso in Kilowatt – del consumo elettrico (e quindi di sforzo fatto dalla macchina) per “portare fuori” il materiale reagito. Un valore eccessivamente basso lascia dedurre una cattiva reazione del materiale stesso e quindi una produzione fuori specifica e quindi un prodotto inutile – o quasi, il che porta spesso ad un intasamento o blocco dell’impianto: indotto (dai più esperti [c-c-s-f]) al fine di evitare ulteriori complicazioni; accidentale e con le conseguenti complicazioni (da chi pensa a salvare la pelle [=slp]).

(5)Su questa faccenda ne avrei da disquisire parecchio, ma preferisco trattenermi un po’.
Mi sono trovato spesso e volentieri ad assistere – se non addirittura coinvolto – a dei passaggi di “patate bollenti” al fine di mantenere il proprio “ruolino lavorativo” intonso.
Per non parlare del passaggio delle colpe (questo fenomeno l’ho intimamente battezzato il cha-cha-cha delle responsabilità) cui, a fronte di un problema non sono l’effetto e la causa oggettiva dell’avaria ad essere ricercate (magari sull’impianto stesso), bensì le persone operanti e l’eventuale colpevole o capro espiatorio che sia (ho sospettato in un coinvolgimento di Pennac e del suo sig. Malaussène in tutto questo) – anche qui vi rimando a dopo per la considerazione (a tratti meritata) volta agli operai da parte dei quadri.

(6)Solitamente, sempre gli stessi.

(7)Prevalentemente lavori che comportano lo sporcarsi o il sollevamento di pesi oltre i venti chilogrammi.

(8)Esempio esplicativo: tra gli additivi da aggiungere alla caldaia quando c’era da caricarla della miscela preposta alla produzione, ce ne sono alcuni in polvere. Mi è capitato spesso di trovarne sparpagliata qua e là nella zona di sistemazione, oppure addirittura nella zona di deposito (con tanto di sacchi bucati) e di andare a vedere sui vari fogli di lavorazione [rif. b] chi era stato l’ultimo operaio ad aver caricato la resina [rif. c] e quindi il probabile responsabile del sinistro. Una volta lanciata la “protesta”, mi sono visto negare tutto quanto e questo non è che uno degli innumerevoli esempi che potrei fare.
b)il foglio di lavorazione è un registro su cui l’operaio zelante segna tutte le operazioni svolte sull’impianto e, in generale, tutto quanto riguarda la produzione del suo impianto.
c)per caricare la resina si intende il riempimento di una caldaia con gli stessi materiali (qualora si debba proseguire una produzione già in corso) o con materiali differenti (qualora ci fosse un cambio di produzione).