Siamo solo di passaggio e mai nessuno che pulisce

Categoria: misantromia Pagina 11 di 12

Trentaduesimo

Con una resa incredibilmente longeva – per quanto mi riguarda – qualche giorno fa ho concluso una delle esperienze più illuminanti della mia ancora (grazie al Cielo) breve esistenza.
Era il diciassette maggio 2004 quando entravo a piè pari in quello che doveva essere un “anno sabbatico”, rivelatosi poi un periodo ben più gonfio, per motivi che a tutt’ora – sono mediamente (in questo momento) “a-caldo” – non saprei spiegare.

Cominciai a capire che quel lavoro mi avrebbe insegnato qualcosa quando, a seguito di una piccola ustione alla mano, andai dal mio diretto superiore a lamentarmi del danno.
“Guarda, mi sono scottato la mano!” gli dissi.
“E té ‘ndu séret?” (e tu dov’eri?) mi rispose.

La mia storia si svolge all’interno di una contraddittoria (per svariati motivi) grossa industria chimica del nord Italia. Nomi e riferimenti reali li ometto, ho già troppe beghe legali da risolvere senza bisogno di aggiungerne altre, ma tutto quanto scritto qui, vi posso assicurare, corrisponde al vero.

Ventinovesimo

Reduce e superstite.
Camminatore del cielo al pari di Luca nella saga guerrafondaia e stellare.
Oltre il viaggio lisergico di Dante ho attraversato un anno lassativo – purgatorio – attraversando i bassi di un inferno ideologico e poi risalendo come l’araba fenice cercando di evitare i missili di Bush e di Israele nel mio paradiso esistenziale.

Scrivo poco, lo ammetto. Ma ammetto anche di aver dedicato più tempo alla lettura, al riposo ed al vivere.
Mi aspetta un anno di quelli alla Alfred Hitchcock, per cui necessito della dovuta rincorsa.

Tutto quanto sopra solo per dirvi una cosa:

VADO IN VACANZA!

Porca vacca.

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Ventisettesimo

L’altra sera esco al pub cui sono solito frequentare dopo la mezzanotte, e mi posiziono sulla porta d’ingresso intento ad intavolare quelle solite discussioni atipiche con amici vari, quando una ragazza dall’aspetto anche-quasi-piacente, occhio spento, mi si avvicina e mi fa << scusa, non avresti cinquanta centesimi? Mi servono per prendere un bicchiere d’acqua >>.
Non so se ci sia stata una qualche causa scatenante, ma quella sera stavo un gran bene, così mi sono girato verso di lei, l’ho guardata così come si guarda qualcosa di veramente curioso e le ho risposto con la prima cosa frullatami in testa.
<< Dell’acqua? con quella faccia lì? >> nello stesso istante le stavo allungando la moneta da cinquanta cents.
Sarà stata la condizione provante, le particelle di THC già fluidificato e gironzolante a braccetto con quelle di alcol nei canali arteriosi, o quant’altro, ma in lei non c’è stata reazione alcuna degna di esser definita come “arrabbiatura”.
<< No, davvero! Guarda, se riesco a farmi dare quella del rubinetto te li riporto! >> subito sulla difensiva.

Ventiseiesimo

Ventisette.
Ventisette come il giorno della paga.
Ventisette come gli anni di pontificato di Papa Giovanni Paolo II.
Ventisette anni di carcere per Nelson Mandela.
Ventisette come tutto sommato un bel voto ad un esame, anche se lascia un po’ di amaro in bocca – si era tanto vicini alla “perfezione”…

Ventisette, a dire il vero, è un’età che non mi sa d’un cazzo.
Sì, perché sorride del fatto di esser ventenne ed allo stesso tempo ha l’espressione del bascardo pronto a ricordarti di quanto sei prossimo ai trenta. Sai che tragedia…

Ma in fondo no. E’ che con il numero ventisette non ci ho trovato nulla di rilevante. Nulla degno di nota.
Sono ventisette, precedono i trecentosessantacinque giorni prima dei ventotto e così via.

Ventiquattresimo

Quando arrivò il momento di partire era un assolato venerdì pomeriggio. L’altro si accorse dell’arrivo di uno dal continuo abbaiare dei cani nel cortile e, di seguito, dalla raffica di complimenti a loro indirizzati – anziché urla di terrore.
Il tempo di raccogliere tutto quanto serviva per la permanenza a destinazione e caricare quel grosso medaglione di lamiera – alimentando la curiosità della gente presente al bar di fronte alla casa dell’altro – a bordo del furgoncino ed i due sfrecciavano già rivolti alla meta.

Una tappa intermedia nello studio di un giovane artista in quel di Bergamo, con l’aggiunta di una breve colluttazione con un portatile Mac come fuori programma, e di nuovo catapultati oltre le giunture dei monti, fino a raggiungere la vallata destinata all’arrivo.

Durante un periodo del tragitto, l’altro cedette all’accanimento di Morfeo, dato la coppia di ore di sonno cui era provvisto, causa ignobile turno lavorativo.

Ventiduesimo

Dove sono? Ovvero: appunti di un viaggiatore disorientato – Parte prima.

Attraversare un viaggio notturno per arrivare da qualcuno che va prendendosi sempre più spazio in te.
Provare in contemporanea fastidio per l’essere condizionato sempre di più “non-da-sé-stessi” ed allo stesso tempo covare ansia dal desiderio di vederla.
Rendersi conto di trovare i pertugi più impossibili pur di tenere un posto fisso nella mente da dedicare a quella persona.
Scorrere i cieli di mezzo stivale, nelle sfumature bluastre e nere delle notti annuvolate o serene, sfrecciando via su di un treno che senti palpitare e realizzi che sei tu a non stare più nella pelle.

Diciannovesimo

Specchio.

Forse era una cosa che non facevo da tempo, quella di guardarmi allo specchio, di osservare nella mia immagine riflessa quell’ammasso di eterei oggetti facenti parte del mio essere davvero.
Scegliendo di-tutto-di-più come palliativo a me stesso, ho passato periodi interi cercando di soffocarmi con inni al ricreativo e divorando ciò che di nuovo e leggero mi si poneva davanti.

Ora che ci penso bene, “asettico” sarebbe il termine più adatto.
Stavo – tutto sommato anche bene – in quella condizione in cui anche chi entra a far parte delle tue sfere conoscitive, le tue frequentazioni, in qualche modo non ti tocca.
Arrivano, come carte pescate da un mazzo in un gioco cui sai benissimo che prima o poi dovrai scartare, e lo fai quando arriva il momento. No, non c’è cattiveria, c’è atarassia. Un’atarassia chiara e forse più fastidiosa nell’essere realizzata, capace di trascinarti fino al punto in cui occorre per forza qualcosa in grado di distrarti in mezzo a quella cosa che ti ostini a non chiamare insoddisfazione.

Diciottesimo

Visto che non so cosa scrivere, mi limito a postare certe immagini di repertorio, magari pure senza didascalie – ma anche no. Queste immagini vanno dalle serate durante le prove con i ragazzacci del gruppo, a quelle fatte nel locale di Marco, per passare da un luogo in cui è in via di sviluppo la “creatura”, eccetera eccetera.
Non abbiatene a male con me se non aggiorno, ma è un periodo di discrete evasioni mentali, c’è stato il passaggio dalla stagione più intransigente, a quella che – speriamo – dovrebbe essere più dolce, c’è stato un susseguirsi di eventi attinenti a me che in qualche modo stanno sortendo un’esplosione silenziosa.

Sedicesimo

Incubo di una notte di mezzo inverno

Ho sognato una lucciola. No, non “quel genere” di lucciole. L’insetto, intendo. Una lucciola.

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Volteggiava silenziosa scandendo il suo volo con morbide sequenze luminose, compariva e spariva in vari punti della stanza, buia.
Ora sparisce, dopo un accenno di visibile volteggio, per ricomparire vicino a me.
Sono sdraiato sul divano, a pancia sotto; riesco a percepire la presenza del piccolo insetto con la coda dell’occhio, ma non ne sento alcun ronzio.

Passa un istante e la scena si sposta: sono in una zona che so di conoscere, ma che non riconosco; con uno di quegli scooter di grossa cilindrata percorro la strada per rientrare a casa, ma superato il primo viale ben illuminato, una rotonda centrata da una grossa fontana circolare ed il ponte che sovrasta il fiume, mi ritrovo nella totale assenza di luce.

Quindicesimo

Lo so. E’ da tanto che non scrivo, ma ho le mie ingiustificate giustificazioni, insomma ho il mio perché senza nessun ben chiaro perché.
Sono scappato da Mordor, per una cosa che ancora non ho capito, ma che mi porta a fuggire da qui per salvarmi. E’ lo stesso effetto delle pareti di una casa che si stringono su sé stesse, come quando togli l’aria da un contenitore semirigido e l’oggetto si deforma, contorcendosi su sé stesso.
Quella cosa, io, la stavo provando anche all’aria aperta, qui.
Un viaggio tutto sommato piacevole. Un po’ di dissenso sul passeggero dietro di me al momento del passaggio sotto il metal detector, nel tempo in cui io dovevo ancora finire di riporre la mia roba nella vaschetta plastica atta al trasporto dei personali-misantropi sotto i raggi ics, lui aveva già messo tutto quanto sul nastro trasportatore, costringendomi a lanciare il cappotto sotto la macchinetta, con un sussulto dell’operatrice che in me aveva già letto gli occhi disperati di chi non-ce-la-fa-più.

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